Quante realtà dentro il sogno

Yael Artom è una di quelle rare scrittrici capaci di frugare dentro l’animo del lettore: pochi personaggi, ma indimenticabili, un protagonista perennemente sulla frontiera tra equilibrio e squilibrio, una vicenda totalmente normale nella sua anormalità. In poche parole, ciò che siamo, chi siamo oggi, le nostre identità confuse e le nostre volontà fragili. Un romanzo, Il pesce del tempo (Voland, 2022), che ripercorre le tracce della narrativa mitteleuropea. Ho trovato echi del flusso di coscienza di Joyce, ma anche paradossi allucinatori che mi hanno ricordato Kafka, e soprattutto la riflessione di Svevo in un curioso parallelo tra Zeno, la sua coscienza e il protagonista di Artom, Adàutto. Curioso nome, per inciso: cercandone l’origine si scopre che è tratto dal latino “aggiunto” e si risale a un martire cristiano dei tempi di Diocleziano. Non a caso? Al lettore la risposta. Dal canto suo, Yael è nata a Gerusalemme, ha insegnato scrittura accademica, lavorato presso una ONG e fatto la lettrice per una casa editrice. Insegna letteratura inglese presso una scuola internazionale a Genova, la città dove ormai vive da anni, e collabora con la rivista Pulp. Ho avuto modo di incontrarla grazie al comune amico Nico Gallo e, dopo avere dato una scorsa al suo libro, di averla ospite nel TG regionale della Liguria. Poi ho letto il romanzo in due giorni e ne sono rimasto colpito. Di qui il desiderio di riaprire Ucronicamente con la sua intervista. E come nel finale del romanzo apparirà chiaro, il tempo-non tempo, la controfattualità della narrazione che spesso si sostituisce alla realtà, l’onirico come altra faccia del razionale sono concetti che Yael Artom gestisce con maestria, collocandosi con agio come autrice almeno collaterale alla letteratura fantastica.

Quali sono, se ne hai, i tuoi modelli letterari?

Ne ho tantissimi, e molto diversi fra loro. Fin da piccola ho sempre amato molto i racconti e la lettura. Ascoltavo a bocca aperta mia madre che mi raccontava i miti greci prima che imparassi a leggere, e, dopo che ho imparato a leggere, quando ero immersa in un libro, non sentivo se mi chiamavano. Ci sono tante influenze, anche inconsce credo, ma fra le più forti in questo romanzo c’è quella dell’Ecclesiaste, ma anche i giochi linguistici di Heller, le atmosfere surreali di Boris Vian e Kafka, e il senso del ritmo di Faulkner.

Adàutto è il tuo protagonista. Subisce, nel corso del romanzo, una progressiva metamorfosi che ne mette a nudo carattere e debolezze. Ti ci riconosci oppure è frutto di osservazione esterna?

Mi ci riconosco in senso lato, come essere umano. Penso che l’identità sia complessa e lontana dall’essere stabile e univoca. “Io” è una storia che ci raccontiamo, tentando di dare un significato alla nostra identità, qualcosa che ci dia un senso di continuità e stabilità, ma credo che l’io sia più sfaccettato e vario, e dipenda fortemente dalle circostanze e da chi abbiamo intorno. Volevo creare un personaggio che non fosse bianco e nero, in cui potessero convivere momenti ispirati e momenti gretti, un uomo qualunque che si ritrova in mondo estraneo, e quindi un uomo che tenta di creare sé stesso con ogni sua decisione, una personalità instabile, spesso al limite dello squilibrio.

Le piccole e grandi ossessioni ci forgiano e condizionano la nostra vita. È un destino o esiste una via d’uscita?

Non so se definirlo un destino, ma credo che la possibilità dello squilibrio e dell’ossessione sia sempre presente, e che siamo più fragili di quello che ci piace ammettere. La nostra stabilità è frutto di un costante esercizio di equilibrismo che facciamo per tenere insieme la realtà e la nostra percezione, non solo della realtà stessa ma anche di noi e del nostro posto nel mondo. Lì, in equilibrio precario su un filo, cerchiamo di non vedere le inevitabili discrepanze che ci farebbero vacillare. Ma ogni tanto un colpo di vento arriva.

Quanto influisce, se influisce, la tua esperienza di insegnante di letteratura sulla tua narrativa?

Insegnare letteratura e farne esperienza insieme ai ragazzi in classe ha confermato per me in modo molto tangibile quanti significati possibili ci siano in ogni opera, quanto rimane implicito, fra le righe, pronto a essere scartato come un regalo e guardato diversamente da diversi lettori.

A un certo punto la coscienza di Adàutto emerge in una sorta di flusso: ti sei ispirata a Joyce?

Non consciamente, non oserei! Ma  il modernismo è una corrente che mi affascina molto. Mi piace l’idea di poter ritrarre un personaggio attraverso il modo in cui pensa.

Più leggo il tuo romanzo più ci vedo analogie anche con Kafka e soprattutto con la narrativa mitteleuropea alla Italo Svevo. Riconosci questa influenza?

È un paragone che mi lusinga moltissimo. La scrittura di Kafka è talmente potente che una volta ho dovuto mettere via un suo racconto perché mi aveva sconvolto troppo. Anche Svevo mi piace molto per il suo umorismo sottile e la sua eleganza.

Cosa leggi di solito quando non scrivi?

Tante cose diverse, dai classici alle nuove uscite, e di quasi tutti i generi.

Ti piace la fantascienza? Quali autori ne conosci?

Sì, mi piace molto, credo che sia un genere che dà grandi opportunità per sviluppare idee e universi. Il mio autore di fantascienza preferito è Philip K. Dick,un autore strano e imperfetto, a cui perdono tutto perché  mi piacciono tanto i suoi mondi e le impossibili situazioni esistenziali e filosofiche che crea.

Puoi anticipare qualcosa del tuo prossimo romanzo?

Quello a cui sto lavorando in questo momento è un romanzo sul potere che hanno le storie e come possono sostituirsi alla realtà.






			
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Due anni e mezzo via

Comincio questo post con delle scuse, doppie. Dapprima alla casa editrice Porto Seguro, che ha avuto fiducia in un testo che nessun altro ha voluto – poi vi spiegherò il perché – e poi a chi se lo è sentito presentare il 25 giugno scorso a Marina di Massa. Dunque, l’autore è evidentemente anche il co-protagonista di questo romanzo, altro che amico di cui giornalisticamente avrei raccolto la testimonianza. Negare di essere io a raccontare una mia storia non mi appartiene. Stavolta ho peccato di modestia, come dire. Ho pensato che dato il tema sarebbe stato forse increscioso mettermi sul piedistallo con tanta gente che di Covid-19 si è ammalata ed è anche morta. Così non è capitato, per pura fortuna, a mia madre, che ne è guarita, nel cruciale anno 2020, quando ancora vaccini non ce n’era e la malattia era molto più cattiva.

Quindi il ringraziamento/scuse per Porto Seguro: piccolo, ma volitivo editore fiorentino, che ancora crede nei libri di carta, e che ha creduto, andando assolutamente controcorrente, in una storia come questa. Che avevo proposto inizialmente ad altri, conoscenti, amici, compresi editori di letteratura fantastica, date le derive di certe parti del romanzo di cui vi dirò. Ricevendone tuttavia cortesi quanto netti dinieghi. Uno per tutti, “nessun vuole sentire anche solo nominare il covid, figurarsi leggerne, pubblicare una storia così sarebbe un suicidio”.

Ebbene, non lo è stato. Due anni e mezzo via sta pian piano decollando, stampato, certo, in un numero ridotto di copie e per ora affidato al tam tam di amici e stampa vicina, sperando di organizzare al più presto una presentazione pubblica come si deve. Non perché a Marina di Massa non si stato così, ma insomma, un libro si presenta tendenzialmente anche in luoghi diversi da uno stabilimento balneare sul finire della giornata. Lo sappiamo tutti, io, l’editore e anche chi è venuto quella sera, l’auspicio è che la promessa di un evento adeguato venga mantenuta; io per me ce la metterò tutta.

Dunque, il libro. Qualcuno ha parlato di mainstream per Due anni e mezzo via, e non è del tutto sbagliato; intendiamoci però sui termini. Cos’è “mainstream” e cos’è “genere”? Due anni e mezzo via descrive la parabola di una malata di covid, anziana e fragile che, causa la malattia, si vede proiettata all’improvviso fuori dal suo elemento naturale: la casa, le abitudini di una donna più vicina ai novanta che agli ottanta anni. Pertanto, di per sé poco incline a cambiare abitudini, figuriamoci cosa succede quando tutto a un tratto il cervello comincia a fare scherzi, l’aria manca e ci si ritrova seduti per terra dopo avere tentato di andare in bagno.

Mia mamma è finita così in ospedale, con un covid diagnosticato tardi – ringrazio ancora, ironicamente, il medico di base che non volle certificarlo prima, mettendoci magari in condizione di usare quegli antivirali che per mamma, dopo il ricovero, si rivelarono inutili – e la prospettiva seria di non uscirne più. Ricoverata in un reparto blindato da cui uscivano notizie solo a orari fissi e comunque in maniera estremamente professionale, dalle più critiche dell’inizio a quelle molto più confortanti del prosieguo. Due settimane e mezzo all’Ospedale Galliera di Genova che nella mente di mia madre sono diventati due anni e mezzo.

Di qui il titolo del romanzo, che doveva nascere come suo, di mia madre, ma che lei, nella sua età avanzata non ha voluto scrivere, lasciando alla fine l’incombenza a me, raccontandomi le sue stranissime esperienze di paziente affetta da ipossia e quindi esposta ad allucinazioni di ogni tipo, e trascrivendo solo qualche riflessione su pezzettini di carta che poi si sono rivelati utilissimi, soprattutto quelli in cui ragionava proprio sul tempo che trascorreva e non fluiva più normale nella sua mente, oppure sulla sua stessa età, che non riusciva più a calcolare per bene: incertezze che poi in parte le sono rimaste come eredità di una malattia che ancora non sappiamo quanto incida non solo sulla salute polmonare ma anche sulla stabilità psicologica e neurologica di chi la contrae, anche nel lungo periodo.

Ed ecco quindi la protagonista di Due anni e mezzo via fantasticare sulle ombre che vede sul soffitto della sua stanza di ricovero: fantasie allucinate in cui si mescola il ricordo dei libri letti, e dunque i soldati di Guerra e Pace, il conte Vronskij e Anna Karenina, ma anche la battaglia di Balaklava. Perché Dora/Giulia nel reparto covid del Galliera ha combattuto una guerra. Che ha vinto forse anche perché è riuscita a estraniarsi dal presente. Lo ha metaforizzato. Romanzato. Una vicina di letto che si trasforma in una Capitana dei Contrabbandieri, il freddo patito che si sceneggia in un viaggio in treno in montagna, che mi veniva puntualmente annunciato nelle varie stazioni in ogni telefonata, e io a dire, ci siamo, è andata, non tornerà più indietro da questo mondo parallelo.

Delirio come rifugio, è capitato a tanti pazienti gravi di covid con patologie polmonari severe e bassa saturazione di ossigeno. Tutto si spiega, ma anche no. Chi sarà mai stato e soprattutto cosa avrà mai detto a mia madre l’uomo con su scritto sul casco ermetico “PRETE”, per sconvolgerla al punto da fare tornare la febbre? Forse nulla, forse il prete voleva solo dare conforto, ma le sue parole sono state stravolte da un’esasperazione amplificata dall’ipossia e dalla scarsa lucidità. E tuttavia questo PRETE, così come la Capitana dei Contrabbandieri sono assurti a livelli metafisici, autentici topoi negativi e adattissimi a una narrazione di tipo fantastico, che io, autore di narrativa di genere fantastico, mi sono sentito pertanto senza remore di applicare.

Viaggio all’inferno e ritorno, dunque? Sarebbe stato troppo banale, come sa chi elabora titoli per mestiere; il titolo c’era già, in quello che Dora/Giulia sostenevano: sono stata due anni e mezzo via. La mia testa mi dice così. La dimensione del tempo, del resto, sappiamo tutti essere relativa e personale. Un viaggio che interseca dunque fatalmente altri viaggiatori, altre vite. Zaira/Stefania, assistente di mia mamma, mai ringraziata abbastanza per ciò che fa – e che si prese il covid a ruota – Bruno/io, il figlio filiale impaziente, descritto – non potevo fare diversamente – per com’è/sono, senza complimenti o particolari riguardi; e dunque un’autoanalisi che quelli bravi definirebbero cruda e spietata; quindi i medici nella loro casuale e ruvida angelicità, compresi quelli meno empatici, tutti indistintamente da applaudire per come è stato trattato un caso che all’inizio sembrava segnato. La RSA dove infine Dora passa un pezzo di convalescenza, con i suoi tratti misti di nido/serraglio/prigione.

Un romanzo atipico e insieme tipico per il sottoscritto, così lo avevo descritto appena uscito. Di certo un testo per me non del tutto usuale, che mi ha accompagnato in un processo di consapevolezza che sta continuando ancora adesso. A me è servito, mia madre lo ha gradito, spero possa piacere anche a voi tutti.

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Tutti indossiamo una Seconda Pelle

Eccomi, dunque, dopo un timido riaffacciarmi, lo scorso anno in piena pandemia con l’ucronia calcistica Il mancino di Dio, a pubblicare un romanzo per me tipico e insieme atipico. Tipico, perché si tratta, di nuovo, di una storia alternativa, con aspetti fantascientifici che la accostano all’ormai antico Dalle mie ceneri e con una discendenza diretta da quella che adesso può considerarsi una trilogia, insieme con l’opera prima, Nero italiano e con il suo seguito diretto, Dea del Caos; atipico, perché Seconda Pelle, pur presentando una protagonista e alcuni personaggi che vengono direttamente dal quella linea temporale, l’Italia defascistizzata a partire dal 1975 e al costo di una spaccatura di tipo coreano o tedesco e quindi di una difficile riunificazione, è un romanzo per molti versi a sé.

Anzitutto Seconda Pelle è un romanzo che viene quasi vent’anni dopo Nero italiano; risente dunque non solo di quella che considero un’evoluzione stilistica, ma anche umana. Tante cose sono successe dal 2003, e non solo nel Grande Mondo. Anche il Piccolo Mondo dell’autore, del sottoscritto, è mutato, a sua volta drammaticamente e traumaticamente. Seconda Pelle risente dunque di strappi e ricomposizioni che me lo rendono anzitutto molto caro, a prescindere da come andrà. Se Nero iniziava tipo “era una notte buia e tempestosa”, questa nuova creatura parte con la protagonista spiaggiata sul divano di casa, a mo’ del relitto che si sente di essere, con l’unica compagnia dell’alcol e la mania della pulizia, del netto, del Bianco, come lei appunto si chiama, Bianca.

E Seconda Pelle si presenta quindi subito come una storia in cui l’azione è funzionale alla rivelazione interna di Bianca: una donna che (ri)scopriremo abusata, e pronta a subire di nuovo. Cosciente di quanto le è accaduto in passato, ma disperatamente determinata a rimuoverlo, ad andare semplicemente avanti per una strada già definita, quella dell’ereditiera che non è riuscita a mantenere una posizione, che ha cercato di respingere il ruolo prestigioso offertole dalla società e ne ha pagato il prezzo. Come tuttavia si scoprirà, non per intero.

Tanto più che la nuova società non è affatto amica delle persone come Bianca e delle donne in generale: il governo del Timone, una sorta di diarchia autoritaria e repressiva che si è istituita in questa Italia alternativa eppure così simile alla nostra, non ama la stampa libera e le donne libere; grava su ogni cosa una cappa palpabile in cui la Sanità è diventata la longa manus di un’ideologia basata sul controllo totale. Non si divorzia, non si abortisce, si scrive solo ciò che il governo approva, grazie anche all’introduzione massiccia di intelligenze artificiali a dirigere quotidiani, a coordinare traffico e urbanistica, a concorrere alla soddisfazione dei cittadini con spettacoli degni dei Circenses romani.

Quando le strade non sono attraversate da battaglioni di miliziani armati e pronti a reprimere dissidenti e migranti clandestini, le piazze principali si riempiono di avatar e altre attrazioni che gli adulti adorano e i bambini guardano a bocca aperta. Mentre il cielo si riempie di droni, una flotta sempre più massiccia e articolata, che si riproduce secondo i ritmi voluti dal governo. Controllo totale, che Bianca sfida dapprima scagliando bicchieri e cicche dalla sua finestra panoramica sul porto di Genova, e poi esponendosi direttamente, a dispetto del suo passato, a un’inaudita repressione personale.

Controllo totale che invece Gianluca, l’altro protagonista, vicino di casa di Bianca e a sua volta giornalista, amante dei gatti ma soprattutto della propria tranquillità, asseconda e quando può ignora, vivacchiando ai margini del mondo della stampa e prendendosi cura ogni tanto del padre, unico sopravvissuto dei suoi genitori. A sua volta, Gianluca è curato e vittitato da Arianna, una delle tante donne che si sono avvicendate al suo fianco. Finché, proprio a causa di una delle esternazioni alcoliche di Bianca, lui non fa la conoscenza di questa donna strana e magnetica, e subito pensa di potersi servire della sua storia per ridare vita a una carriera asfittica.

Di qui comincerà il secondo calvario di Bianca, un percorso di ambizione e dolore che la porterà prima a conoscere la sua nuova nemesi e poi al confine dell’umanità per come la conosciamo, liberando il suo djinn, o demone malefico, o forse soltanto la parte più oscura della propria personalità. Un Lato Oscuro per molti versi cruciale, decisivo. Quel Nero che, dopo vent’anni, mi sento di dire sia l’autentico significato del mio titolo d’esordio.

Un romanzo ambizioso, dunque, di sicuro per un autore come sono io, che ostinatamente non si affanna a definirsi “scrittore” nelle bio sui social. Non solo per snobismo, gusto di contraddizione o polemica, ma anche per una considerazione obiettiva. Non vivo delle mie storie, almeno materialmente; ne vivo di sicuro psicologicamente e le uso per fare chiarezza su me stesso. Fin qui, nessuna meraviglia, l’autobiografismo è proprio di tanti scrittori/autori. Nel mio caso, chi mi conosce bene capirà che tracce di me non si trovano solo nell’imbelle Gianluca, ma anche nell’intrepida e disturbata Bianca, e negli altri personaggi che li circondano, in una sintesi che fatica a farsi largo.

Una voce, insomma, che si frammenta e si fa coro, prevalentemente dissonante, forse per la mancanza di riferimenti forti nella realtà, dopo l’atroce destino che cinque anni fa mi portò via mia moglie Paola e mi lasciò, come avrebbe pensato Gianluca, solo in un mondo ostile in cui cercare continui appoggi, oppure, come avrebbe gridato Bianca, solo contro tutti, armato di un bicchiere di cristallo da tirare in faccia a chi riconosco nemico, umano e anche no. Solitudo mea fortitudo, insomma.

Un bilancio di vita, sotto certi aspetti, ma anche un rilancio. Nell’attesa che la vita ci/mi sorprenda con altre storie che, e questa è l’unica certezza, aspettano ancora di essere raccontate.

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Embedded

Embedded, così si definisce il giornalista che lavori in una zona di guerra al seguito di un esercito, accettandone la protezione ma anche le limitazioni imposte alla propria libertà di movimento e di espressione. Mai come dal 24 febbraio, e facendo assolutamente salvo il lavoro di chi per raccontare ciò che accade ogni giorno rischia fisicamente la vita, in Italia questo termine è diventato attuale, e più che a descrivere uno stato di necessità, è venuto a delineare una disposizione dell’animo: il giornalista che, senza nemmeno averne il bisogno, dalla ridotta di casa o da desk, o dalla televisione, precisi dapprima la propria posizione, formuli il proprio giudizio di condanna, ancorché ultroneo, su chi ha aggredito, e piuttosto di preoccuparsi di descrivere la realtà, didascalicamente emetta giudizi su chi questa stessa realtà cerca di sviscerare in tutte le sfaccettature, comprese quelle meno lusinghiere per la parte che si è deciso di sostenere. Il commentatore, insomma, questo fenomeno di tipica italianità.

Ora, è assolutamente evidente chi nella guerra russo-ucraina sia l’aggressore e chi si stia difendendo. E’ pacifico. Ma il giornalista commentatore italiano, non pago dell’evidenza, ed essendo abituato da sempre a vedere e magnificare vestiti sgargianti indosso al nudo imperatore, deve manifestarsi più realista del re, e rammentare a tutti, in ogni articolo, da che parte stia la Verità. Chi abbia ragione, chi torto. Esemplare un recente Caffè di Gramellini in cui nientemeno che l’Anpi viene bollata di infamia per seguire linee di pensiero non ortodosse e il cui stesso acronimo viene per questo ribattezzato “Associazione Nazionale Putiniani d’Italia”. Un marchio d’infamia degno di figurare nella galleria di ben altri regimi, e che non a caso genera filiazioni inquietanti, come il meme in cui si storpia il manifesto dell’Anpi per il prossimo 25 aprile che riporta, disteso in orizzontale, il tricolore italiano, come se fosse “quello dell’Ungheria”. La perfida Ungheria che appoggia Putin, ovviamente.

Un’atmosfera inquietante, che se non fossimo dichiaratamente in democrazia ci porterebbe dritti a ricordare climi come quello del maccartismo negli Stati Uniti, oppure gli agit-prop degli stessi vituperati regimi del socialismo reale di un tempo, o le opposte propagande di guerra di Russia e Ucraina. Siamo, però, dichiaratamente in democrazia. D’accordo, una democrazia in cui il diritto di voto risente di qualche trascurabile intoppo dovuto alla pandemia e alla necessità dei partiti di non farsene travolgere; una democrazia in cui non siamo riusciti a eleggere un Presidente della Repubblica che non fosse chi già avesse esaurito il suo mandato, in cui al governo c’è un ammasso di forze politiche eterogenee e ormai in uno stato perenne di confusione, e il cui premier è un banchiere prestato alla politica. O per meglio dire, un banchiere che sta facendo da tutore alla politica.

Non a caso la risposta della politica italiana alla guerra è stata flebile e poco convincente. Il nostro Paese non è ascoltato a livello globale, e questa non è una novità; l’aspetto, di nuovo inquietante, è se mai che mentre di fronte alla pandemia vi era una massiccia inflazione di presenze politiche ufficiali, dai ricorrenti – e anche un po’ sconcertanti – messaggi televisivi di Giuseppe Conte agli sguardi fissi – altrettanto sconcertanti – di Mario Draghi; adesso, di fronte alla guerra, proprio nel momento in cui una comunità avrebbe bisogno di sentire il parere e perché no, anche il conforto dei propri governanti, questi invece sembrano implosi. Dopo una prima settimana di sparizione pressoché totale di fronte agli eventi, la politica italiana è tornata balbettante, esitante, più vuota di contenuti che mai. Se non la propria, eterna e vuota autocelebrazione.

Qualche politico europeo, va detto, si è presentato da Putin cercando di capire, di esprimere ragioni o convinzioni, in alcuni casi anche pressioni. Uscendone anche con qualche ammaccatura, certo. I nostri no. Sono rimasti nella ridotta casalinga, elaborando la consueta pietanza con salse da loro ritenute adeguate alla situazione, ma evidenziando, dagli assoluti vertici fin giù nella catena gerarchica e alimentare, un’assoluta inconsistenza di argomenti e progettualità. Cosa farà l’Italia di fronte alla crisi bellica? Volete la pace o i condizionatori accesi, la frase ormai tristemente famosa di Mario Draghi, che ricorda con molta malinconia quella altrettanto cinica attribuita da più di due secoli alla povera Maria Antonietta. Falsamente, oltretutto, e di sicuro da una storiografia “allineata”.

E torniamo pertanto alla stampa “embedded”. Una stampa davvero libera avrebbe inchiodato i potenti alle proprie affermazioni e anche ai loro silenzi. Alla loro inconsistenza in un momento così tragico. Al loro eterno cinismo. E invece no. Il giornalista commentatore “embedded”, colui che coi suoi corsivi, editoriali o comparsate televisive forgia l’opinione pubblica, salta sul carro (armato) della Ragione e stigmatizza ogni punto di vista minimamente articolato. Sembra che questa guerra sia unicamente nata dalla follia di chi l’ha ordinata, e non da un processo in atto almeno dal 2014, se non addirittura da vent’anni. Che non sia affatto frutto del cozzare, uno contro l’altro armati fino ai denti di due imperialismi, quello americano e quello russo, con un terzo, quello cinese, a stare alla finestra a guardare chi la spunterà. Come se continuare a ripetere come un mantra l’ovvio, e cioè che la Russia stia aggredendo e brutalizzando l’Ucraina, fosse il passaporto necessario per poter esprimere ogni valutazione.

Purché tale valutazione sia quella di scuderia. Perché parlare di pace, volere la pace, cercare di mettere i contendenti intorno a un tavolo, quello no. Non si può fare e quindi non si può dire, e tutto ciò che non si può dire non si deve dire. E’ tradimento, ops, filoputinismo. Fra quanto chi continua a pensare e a dire ciò che pensa in questo paese sarà accusato di disfattismo? E’ già accaduto, accade ancora, se pure con parole apparentemente diverse, accadrà di nuovo. Finché ogni giornalista che si rispetti in questo Paese non ricorderà che, prima ancora di raccontare un omicidio, dovrà per forza chiarire che, primo, non uccidere.

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La fine di tutto?

Dal 24 febbraio scorso questo mondo non è più quello che conoscevamo. L’invasione russa dell’Ucraina ha cambiato completamente la percezione che avevamo di noi stessi e del nostro futuro. Nello stesso tempo altre cose non sono cambiate per nulla. Ma andiamo per ordine.

La Russia ha attaccato in nome di quelli che sono ormai i suoi fari ideologici: l’eredità malata dell’URSS, il sogno egemonico trasmutato dal sovranismo e dall’ideologia personale del suo leader, Vladimir Putin. Un uomo che in vent’anni di potere pressoché assoluto ha costruito un massiccio involucro che posa sulle pietre angolari dell’oligarchia economico-finanziaria e della Chiesa ortodossa russa.

Patrimonio comune di questo blocco economico-ideologico, il nazionalismo, lo sciovinismo, l’odio per ogni forma di globalizzazione che cerchi di guardare oltre i valori tradizionali. Ed ecco, sotto l’involucro, al di là delle roboanti impalcature, spuntare vecchi cancri: razzismo, omofobia, culto della forza, in una parola, il fascismo.

Un fascismo che cerca di stroncarne un altro, quello ucraino, perché dal 2014 le popolazione russofone del Donbass sono state sottoposte ad arbitri e massacri e tentativi di pulizie etniche. Così come ora le artiglierie russe fanno strazio di ucraini. E’ una sporca guerra nazionalista, fascista, imperialista, accesa dalla paranoia americana di voler contenere la Russia in una cintura di paesi membri della Nato, ma pianificata, elaborata e condotta da Vladimir Putin nella certezza che nessuno sarebbe intervenuto a difendere l’indipendenza di una pedina alla fine insignificante come l’Ucraina.

Una pedina che tuttavia ha resistito e resiste con forza all’invasione, mette in difficoltà il nemico che, pian piano, con il montare delle sanzioni occidentali, il ritiro delle multinazionali commerciali e finanziarie, si isola, cominciando dal bandire il termine stesso di “guerra” per ciò che sta facendo, poi blinda i mezzi di informazione, chiude quelli non grati e infine si ritira perfino da internet, nel tentativo di ogni totalitarismo di chiudere i contatti con la realtà. Ritorna così ciò che era dopo la caduta del comunismo, un gigante dai piedi di argilla, benché superarmato, ma forse ben presto non più in grado di rifornire i suoi imponenti mezzi militari già in campo. Poco conta in questo contesto scandalizzarsi per le stragi: nel Donbass i diritti umani vengono ormai violati con sistematicità da quasi dieci anni. Colpisce, di sicuro, l’aspetto punitivo della spedizione militare, l’accanirsi delle artiglierie, il desiderio di annientare.

E non si vede come questa Strafexpedition possa fermarsi, se non per ordine di chi l’ha dichiarata, e che magari, vista l’impotenza degli avversari, può essere tentato di allargare ancora, sotto il ricatto dell’incubo nucleare e dei bombardamenti terroristici. O magari sotto l’incubo ancora peggiore di essere costretto a nuclearizzare in prima persona uno scenario che con i mezzi convenzionali non riesce a dominare. Avanzare sempre, alzare sempre più l’asticella per sopravvivere. Sterminare per vincere, uccidere per non essere ucciso.

Se questo è il quadro che mi sono fatto della situazione, diverso è il tema che specie da noi mi appare venga sottolineato ogni giorno, la polarizzazione in due schieramenti, i pro e i contro Putin, sulla base di due narrazioni contrastanti che non accettano compromessi. Alimentati dai social, che negli ultimi anni hanno defattualizzato ogni evento riducendolo alle sue diverse versioni, stuoli di ex combattenti da tastiera si stanno riciclando dalla guerra dei vaccini alla negazione della guerra stessa: qualcuno ha azzardato che l’invasione brutale del 24 febbraio fosse l’ “inizio della liberazione dell’Ucraina”; altri hanno attribuito agli ucraini la responsabilità diretta delle stesse atrocità che qualcun altro stava e sta materialmente commettendo; altri ancora hanno spostato l’attenzione sui torti della Nato e degli Usa; una piccola, ma agguerrita fazione ha santificato infine l’estrema destra ucraina e la sua tetra simbologia guerresca. Non diversa invero da quella delle bande cecene che affiancano truppe russe ben lontane dall’immagine granitica che si aveva dell’Armata Rossa. Un’Armata Rossa che diventa dunque Armata Nera, meno efficiente ma molto più spietata e sanguinaria di un tempo.

Ma in Italia come altrove impazza il risiko social e l’analisi strategistica – non strategica, si badi bene – condotta dagli stessi che appena un mese fa si lanciavano nella guerra senza fine tra vax e no vax. Su tutto incombe un’aria tetra da conclusione epocale, oltre la quale c’è solo il peggio, anzi il Peggio, ad attenderci. Cupe vampe da Mariupol, Kiev e Kharkiv. Cupe vampe che consumeranno anche noi. Di sicuro, i nostri intelletti in pezzi e chissà, presto forse anche i nostri corpi.

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Sanremo come Youporn

Finalmente ci sono arrivato, dopo anni di inutile spocchia e critica da maestrino con la penna rossa: Sanremo è come Youporn. Perché mi chiederete? Non tanto per quanto talvolta viene proposto, tipo l’ormai celeberrima esibizione inaugurale di qualche giorno fa, Achille Lauro che si autobattezza al termine di uno show in cui dopo aver sussurrato una dimenticabile canzone si era già sfiorato pettorali, addominali e – con meno discrezione – l’inguine.

No, non è tanto questa performance, che discende da quelle più antiche di Jim Morrison o di Billy Idol. In realtà Sanremo è come Youporn per la galassia assolutamente eterogenea e insieme sempre uguale che viene proposta ogni sera.

Un frullatore micidiale, in cui senza soluzione di continuità, proprio come le copule in quei video, entrano il razzismo, i diritti lgbt, la lotta alla mafia, Mattarella, insomma, proprio tutto. E tutto si mescola, si amalgama, in un colore indefinito, in un pastone indefinibile e quasi spermatico, da cui a tratti emerge Orietta Berti vestita da coronavirus, quell’altra sciagurata che gorgheggia con le mani, con il culo, il barbone da profeta laico di Saviano, l’insostenibile leggerezza metapontina di Zalone, Amadeus che strabuzza gli occhi o si sbellica dalle risate – anche troppo forzate – all’evitabile e autoreferenziale monologo di Fiorello.

Insomma, una sorta di gorgo micidiale, che di volta in volta assomiglia a un orizzonte degli eventi o al mulinello dell’acqua nello sciacquone. Un vortice che affascina, invariabilmente, chiunque, perché fabula de te narratur, Sanremo è il buco nero, e dunque la metafora dell’Italia: è l’ascensore dentro il quale ci sei magari tu insieme con un medico e una cassiera che litigano sull’esistenza effettiva del covid o sul distanziamento, è quel tipo che va di casa in casa a suonare i citofoni in cerca di uno spacciatore, è la giovane di successo che ci racconta di come ha scoperto che quel che conta è il colore della pelle, è, o mamma, ma quell* è uomo o donna, è il Freak show ma anche la Missa Solemnis e Irina Palm, stare zitti e buoni quando è il momento e il parterre lo impongono, è dirsi cattolici osservanti ma insomma, Achille Lauro – e torniamo al principio – in fondo non ci offende. Ma dobbiamo dirci comunque cattolici osservanti, e piegare almeno un ginocchio, perché stiamo su RaiUno, e c’è il vescovo che se ne duole, e a noi certo che ce ne cale.

E dunque Sanremo piace, intriga, attira anche i perplessi e i disgustati – tra cui il sottoscritto – proprio perché è tutto e il contrario di tutto, strizza l’occhio alla trasgressione onanistica e insieme si apre alla società civile. Poi però ti accorgi che, sia la trasgressione, sia l’apertura civile Sanremo le pratica allo stesso modo, e cioè stile Grande Fratello, vale a dire guardando dal buco della serratura. Tutto diventa così un reality senza fine, in cui la casalinga di Voghera – ma non solo lei – tiene acceso fino all’una di notte nella speranza che il giovanotto tatuato finalmente mostri la sua dotazione virile, ché se tanto mi dà tanto, signora mia…

Sanremo dunque peep show, gloryhole, YouPorn buona per tutti, banalizzazione di ogni cosa, compresa la religione, la democrazia, le istituzioni, i diritti civili. Cinque serate franche in cui in tv può passare ogni cosa, nel nome dello spettacolo e dello share. Potranno mai avere torto dieci milioni di spettatori a botta? Stacce, dai.

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Come ormai mi è consuetudine, intervengo su questo mio blog a distanza di lungo tempo. Forse troppo, ma la mia convinzione nella forza delle parole, specie quelle su piattaforma virtuale, diminuisce sempre più, per ridursi a una forma di ripiegamento egotista.

Questa è comunque un’altra storia. Quella che volevo riassumere qui è ben altra vicenda, e attiene agli ultimi due anni della nostra vita, passati sotto l’ombra di un’emergenza sanitaria che tutto ha assorbito e permeato di sé.

Ha estremizzato le nostre insicurezze, ci ha prima chiusi in casa per mesi, ci ha isolato, e di conseguenza ci ha reso più vulnerabili. Alle false verità, anzitutto, quelle propalate dalla rete, nell’illusione che i crudi dati della scienza fossero relativizzabili e riconducibili a qualche complotto, ché troppo pesante sarebbe stato accettare semplicemente la realtà dei fatti, e cioè la globalità e la gravità della pandemia, comportarci responsabilmente, essere solidali tra noi. Essere, in una parola, comunità prima che Stato.

Ciò che invece siamo diventati, ciò che stiamo diventando, è una massa di individui monadizzata, atomizzata, ridotta alle necessità individuali e dello stretto nucleo familiare, quando va bene. Preda ideale per l’eterno italico mito, quello dell’Uomo della Provvidenza.

L’uomo che, prestato alle istituzioni, figura che si vuole dipingere come bonaria e degna degli applausi di petroliniana memoria, operi, emergente nell’emergenza e come tale si sovrapponga a Parlamento e opinione pubblica, dettando l’agenda del primo e facendo la paternale alla seconda, valendosi per questo di tutti i mezzi di comunicazione e di un inedito quanto entusiastico loro acritico appoggio.

Ecco come la comunità, che nel nostro Paese è sempre stata assai debole, è diventata definitivamente solo Stato, con cittadini-sudditi sempre più soli e ignoranti, privati della capacità di decidere.

Non se vaccinarsi o no, ché farlo attiene al buon senso e alla tutela della salute e non certo a dialettiche tra polli di Renzo. Ma di decidere se e quanto possa continuare il commissariamento delle nostre istituzioni, nelle mani di un protagonista che si dice egli stesso “prestato” a esse. Per tacere dell’appellativo da lui stesso, ancora una volta, scelto di “nonno”, che vorrebbe rassicurare e invece appiattisce: i nonni, si sa, sono saggi, e in genere hanno sempre ragione.

Difficile dire dove porterà questa deriva. Se sia preferibile un semipresidenzialismo di fatto, eventualmente da far legittimare dalle Camere, ma anche no; oppure se, a colpi di legislazione eccezionale, la democrazia italiana sia ormai un foglio di carta velina a rischio di strappo anche con il semplice soffio di una piazza populista e/o massimalista.

Troppo debole ed egoista è infatti l’Europa di oggi, piegata e piagata dalla pandemia, incapace di prendere posizione di fronte a una Turchia, a una Polonia o a un’Ungheria; figuriamoci se capace di comprendere come l’inedita tecnocrazia paternalistica italiana sia ugualmente rischiosa. Se mai guarda a essa con favore, considerando il nostro Paese un laboratorio politico e sociale, il cui scienziato capo gode di altissima stima.

Un semipresidenzialismo o un presidenzialismo pieno ricalcato sui tratti dell’attuale premier è già allarmante, figurarsi dovesse toccare a figure bocciate dalla storia e, ricordiamolo, soprattutto dalla giustizia. D’altra parte, lasciare campo libero alle destre – e non solo – populiste rappresenta un rischio forse ancora più grave di gestire l’emergenza più pesante dalla Seconda Guerra Mondiale come una favoletta da social, con un potenziale impatto catastrofico su salute e società.

Tra poco le Camere in seduta plenaria eleggeranno il nuovo Capo dello Stato. Ciò che modestissimamente auspico, per quegli anni che mi saranno ancora concessi, è di vedere al Colle una figura al di sopra di ogni discussione, capace di rispettare le istituzioni come i Padri della nostra Repubblica le hanno pensate, senza stravolgerle, senza favorire avventure che, in un momento come questo, potrebbero condurre solo al caos.

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Vox clamans in deserto

Quante storie in un anno, quanto è successo, quanto poco in fondo – almeno per me – è cambiato. Ritorno su questa piattaforma – sempre più negletta, da me e da tutti quelli che desiderano un feedback immediato – quasi non ricordandomi come si gestisce, e rendendomi conto del tempo che è passato dalla fatica con cui mi abituo a un font che mi appare piccolissimo: davvero la vista mi è calata così tanto in un anno? E non solo la vista. Gli interessi, la voglia di metterli in comune, se non con brevi post su social, orrida dizione che ormai sta a significare il sasso nello stagno, e anche uno stagno bello grosso, perché le onde di rimbalzo dalle altre rive faticano ad arrivare. Vediamo dunque ciò che succede/non succede in breve sintesi:

  1. I russi continuano la loro guerra imperialista in Ucraina, che ovviamente ancora si chiama operazione militare speciale; l’Occidente continua ad armare fino ai denti Kiev e il suo leader in questo conflitto mondiale mascherato. Da quasi due anni siamo sull’orlo della catastrofe globale, con tanto di vassalli che invocano l’atomica e irrigidimenti complementari. Già pare che all’Ovest liberista e altrettanto imperiale si contrapponga un singolare schieramento composito di dittature a vario titolo nazional-capitaliste e vetero staliniste. Tutti, indistintamente, ancora troppo timorosi di affondare il piede sull’acceleratore per dare a parole di fuoco il combustibile necessario per incendiare davvero il mondo.
  2. Dal 7 ottobre in Medio Oriente si è acceso un focolaio ancora più pericoloso: al massacro barbaro e indiscriminato di militari, civili, donne e bambini perpetrato da Hamas si è aggiunta una rappresaglia disumana di Israele che si sta rivelando un vero e proprio genocidio. Gaza e presto Rafah, ospedali e scuole bombardati, carne umana un tanto al chilo per fare terra bruciata di terroristi e, già che ci siamo, anche di tutti gli altri. Anche qui nel roboare di voci da Libano, Egitto, Iran e Yemen. E con l’Occidente ancora in ordine sparso, senza altra soluzione che balbettare e lasciare che i militari manovrino il tritacarne.
  3. Un’Italia che propone lo stesso copione degli altri paesi occidentali: disorientata, stordita da quanto accade nel mondo, sballottata dalle sue contraddizioni storiche e nuove: il Mezzogiorno, il lavoro che non c’è e gli incidenti che aumentano a dismisura, le donne ammazzate, il calcio e Sanremo come oppio dei popoli, la nuova classe di governo ancora più sprovveduta di quelle che l’hanno preceduta, l’unica preoccupazione, mettere la sordina alle opposizioni e fare della propaganda la verità di Stato.
  4. Un panorama letterario interno interlocutorio. Piatto, sarebbe meglio dire, da un mainstream che propone poche luci a un “genere” indistinto che si agita, cercando visibilità, codici, linguaggi, insomma quarti di nobiltà per farsi notare e considerare. Ma da chi poi? Da quegli stessi “maitres a penser” che scrivono su giornali ormai letti da poche centinaia di persone; gente che se mai nella vita aprirà una pagina di un libro, difficilmente poserà gli occhi su un romanzo di fantascienza. O di anticipazione, come qualcuno li chiamava un tempo.

Insomma, il tempo, pur essendo dimensione relativa per eccellenza, si fa sentire sulla carne e nella mente e in come ogni anno paia ripetersi senza proporre della grande originalità, se non addirittura senso. Non ti svegli come Roger Waters pensando che di avere perso il colpo di pistola dello starter, ma comunque ti chiedi il perché di tutta questa coazione a ripetere modelli, aspirazioni, crisi, paure. Ti chiedi addirittura se non ti trovi all’interno di un immane esperimento di gestione sociale, poi sorridi e ti dici, scemo, quella era Matrix. Ma non puoi evitare di pensare, a fronte di chi ti dice che in fondo queste cose le pensi solo tu, di sentirti un po’ come quei buontemponi di oltre duemila anni fa, che se ne andavano a cercare se stessi nel deserto, e alla fine, pur mettendocela tutta per non andare fuori di testa, finivano per dirne di tutti i colori. A un cespuglio, chiamandolo Dio.

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Quegli occhi

In pochi forse li hanno notati. A confronto. Occhi trionfanti, quelli di Marina Ovsyannikova, la giornalista che esibisce a sorpresa un cartello contro la guerra durante la diretta del telegiornale russo. Occhi ben diversi, quelli della conduttrice del notiziario. Uno sguardo che non riesce a non tradire tristezza, e forse anche molto altro.

In questi giorni pochi, di nuovo, hanno messo l’accento sulle proteste avvenute in tutta la Russia. Centinaia di arresti, con trattamenti polizieschi degni della caserma di Bolzaneto durante il G-8 del 2001. Corsi e ricorsi storici, la verità prima vittima della guerra, la gente comune vittima degli orrori dei bombardamenti e poi degli orrori di stampa.

In questi giorni abbiamo anche assistito alla nostra buona dose di orrori: il bando a tutto ciò che di russo si possa immaginare, dagli averi dei presunti oligarchi alla musica di Ciajkovski ai romanzi di Dostoevskij agli atleti paralimpici. Un lavacro che è coinciso con un allineamento degno di altri tempi, dalla Perfida Albione al malevolo Orso Russo. Che si porta dietro la santificazione non del popolo ucraino, che è già martire, ma del regime che lo guida, il quale invece nulla ha di sacro, ma molto di profano.

Del resto, bisogna scegliere. Il Nemico è il Nemico, e negli ultimi due anni il nostro Paese ha dato lezioni al mondo intero su cosa voglia dire polarizzazione fra opposti e censura delle posizioni scomode. Spianamento delle sfumature. Non è sola la Russia nell’obliterare la verità. E’ purtroppo in ottima compagnia.

Dove ci porta tutto questo? A prescindere dalla temperie bellica, che rischia ogni giorno di precipitare nel dramma nucleare globale, appare chiaro che la democrazia non se la passi benissimo. Né nell’est nazionalista o dichiaratamente sovranista o addirittura già fascista, né nell’ovest liberale sulla carta, ma sempre più tentato dal neo maccartismo sviluppato durante la pandemia.

Autocertificazioni, colori da semaforo, tu non passi, io sì, tu cattivo io buono, una nozione paternalistica del governo e di chi lo guidi. Gli uomini soli al comando, si sa, hanno grandi responsabilità. E’ normale detengano anche grandi poteri. Molto grandi. Tutti sappiamo come abbiamo vissuto negli ultimi due anni, al punto da chiedersi se non fosse solo una preparazione ai giorni che stiamo vivendo ora.

A pensar male si fa peccato, ma purtroppo, spesso ci si azzecca. E quegli occhi dell’anonima conduttrice del telegiornale russo sono anche i nostri, atterriti di fronte ai mostri che erano lì, sotto il nostro sguardo, ma che non abbiamo voluto veder arrivare.

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I vestiti nuovi dell’Imperatore

Cosa c’è di così affascinante nel voler essere ossessivamente al centro dell’attenzione? Cosa c’è di così gratificante nel vedersi avanguardia comunque, sia pure del nulla? Da giornalista quasi pensionato che si diletta di scritture di fantascienza, weird e ucronie, mi sono imbattuto più volte sia nel narcisismo, sia nei paradossi, e ormai mi sento abbastanza preparato a riconoscerne i sintomi, quando questi si manifestano. Ma andiamo per ordine.

Punto di partenza, il narcisismo. Non tanto quello patologico, quella distorsione di sé che porta ad abusare degli altri secondo la propria utilità, che comunque ce n’è molto in giro e come cantava Giovanni Lindo Ferretti, bisogna essere attenti per essere padroni di se stessi; no, mi riferisco al narcisismo che ti porta, magari giovane e ambizioso, o al contrario, vecchio e altrimenti dimenticato – e diciamolo, anche dimenticabile – a voler invece spalmare di te se non il mondo, la nicchia che hai eletto a tuo albergo.

Cosa c’è infatti più di nicchia della letteratura fantascientifica italiana? Lo ripeto, fantascientifica, e già qui qualcuno sospira, e quindi, italiana, e qui rischiamo di suscitare l’ilarità, oppure se non proprio, uno sbadiglio annoiato. Già, perché il mainstream letterario non ama il termine “fantascienza”. Gli preferisce “fantastico”, “onirico”, “weird”, e altre invenzioni che chi più ne ha più ne metta. Poi, l’aggiunta dell’aggettivo qualificativo, la provenienza nazionale: la fantascienza italiana. Ebbene, lasciando da parte Fruttero&Lucentini che a suo tempo ammazzarono l’infante nella culla asserendo che un disco volante mai e poi mai sarebbe potuto atterrare a Lucca, oggi le cose sono un po’ cambiate.

Grazie alla scoperta di una riga di talentuosi di genere, la fantascienza italiana si eleva al livello di discreto prodotto di intrattenimento. Non siamo, no, negli USA dove il genere è ancora fortunatissimo protagonista cinematografico e dove ci si divide tra pro-Nolan, pro Ridley Scott e pro-Villeneuve; siamo in Italia, dove pure però ci si azzuffa tra fan di Nolan, Scott e Villeneuve e comunque si ambisce alle stelle. E, disgraziatamente, in ogni senso della parola. Perché il punto non è proprio, come forse dovrebbe essere, impariamo a scrivere storie sempre migliori, che magari forse la Settima Arte si accorgerà di noi: è già successo, succede, tanto per citare di nuovo l’ineffabile Giovanni Lindo, che ogni tanto sul grande schermo, e meraviglia delle meraviglie, proprio nel nostro paese, escano storie sghembe che sono magari più weird o fantasy thriller. Oppure ancora, escono serie televisive, e Netflix mostra scenari che anni fa nessuno si sognava.

Giovanni Lindo Ferretti

Ed è qui che arriva il secondo punto, e cioè il paradosso: salvo poche, lodevolissime eccezioni, nessuno pensa a progredire tramite una letteratura di anticipazione scritta sempre meglio. Perché ciò che conta, abbiamo imparato tutti, è farsi vedere. E per farsi vedere cosa si fa? Si sgomita, si imbastiscono manifesti, si dà vita a movimenti. E sorgono puntuali sedicenti intellettuali organici a tali chimere, pronti a imbracciare l’eterna arma della propaganda per venirci a insegnare come le loro creazioni siano funzionali, alternativamente, a un’evoluzione stilistico-letteraria, a una rottura generazionale nel genere che lo porti al livello dell’invidiatissimo mainstream. E qui riprendono a suonare piatti e grancasse sotto le colonne dell’immarcescibile Tempio di Metaponto, luogo ideale di ogni italica logorrea.

E giù parole, parole, incontri, conferenze su Zoom e altri mezzi che la pandemia ci ha tristemente reso noti. Un inarrestabile profluvio tutto italiano, un Circo Barnum della chiacchiera volto a dimostrare che oh, sì, costoro, che poi si definiscono con un ambiziosissimo e maiuscolo NOI, ebbene loro sì che, con chiacchiere e distintivo (l’etichetta che si sono scelti) sono la Nouvelle Vague, quelli che hanno scoperto la Stele di Rosetta del genere, quelli che lo rivoluzioneranno e lo rilanceranno, e tutti assorbiranno, o perlomeno tutti quelli che loro decideranno essere adiacenti. Conformi. Ma conformi a chi? Conformi a cosa?

E però, attenti: siamo, per l’appunto in Italia, e infatti già si vedono all’orizzonte, affannarsi le prime reclute, rincorrere il nuovo carro per balzarci sopra. Hai visto mai. Dalla mia ridotta le vedo del resto anche io, pronte al contrattacco con elmi e armi nuove.

Gli altri, quelli che non si affrettano o che rimangono proprio fermi, bè, quelli non contano. Non hanno mai contato.

Di nuovo: è già successo, succede, accadrà di nuovo. L’ambizione è una molla fortissima, e in un ambiente piccolo come la letteratura di anticipazione italiana, figurarsi. L’ho visto succedere una manciata di anni fa, con una corrente che, un po’ come i Borg, ambiva assimilarci tutti. Si assume che una lobby possa affermarsi meglio che un singolo, e questo è tristemente vero, ancora oggi. Ma da qui si parte per un’impossibile, per l’appunto, paradossale, guerra contro i mulini a vento, fare del genere, ancorché scritto ancora in modo non adeguato, un pari grado dell’odiato e insieme bramato mainstream. Oh, avere un appuntamento annuale come lo Strega, bearsi del ruolo di Intellettuale e Autore…

E’ vero anche questo, il mainstream e la dinamica dei premi letterari più importanti – e non solo – dimostra come lobby+promozione sia il binomio alchemico perfetto per renderti famoso. Perché, una volta costruita a tavolino la tua fortuna, ti si intervisti, oh gioia, sul giornale. Tuttavia, per arrivarci, devi lavorare come un pazzo sui tuoi mezzi espressivi. Il mainstream vuole libri scritti bene e idee forti. Invece, al medesimo binomio di cui sopra, lobby+promozione, per quanto riguarda il genere, mancano ancora, nella maggior parte dei casi, talento e buona scrittura. Ma chi ha ambizione in compenso non difetta di aggressività e, come ci hanno insegnato gli ultimi anni, un concetto di qualsiasi tipo, ancorché immaginario, basta ripeterlo abbastanza, ed eccolo lì, si materializza. Ecco dunque la ricerca ossessiva del label e la sua promozione a tamburo battente.

Siamo poi in Italia. Tutto è politica, e tutto si vorrebbe sublimare in essa. Compreso il genere. Ci si illude di fare quello che nemmeno Kim Stanley Robinson ha inteso compiere o è riuscito a fare e che David Brin fa da solo: creare una corrente di pensiero, un movimento di autori di nicchia che influisca sulla gestione delle politiche ambientali del suo Paese. Ci si illude che bastino due parole d’ordine, qualche riconoscimento, una riga di conferenze via web e magari un’antologia di racconti, per mostrare il fatto loro al colto e all’inclita. E comunque, quanto al target, stiamo parlando di un ambiente ormai mite, se non senile, e se mai abituato alle polemiche fra singoli: veder emergere una fazione di Rambo pronti a stenderti sotto i cingoli della loro Buona Novella un po’ intimidisce. Meglio ritirarsi in buon ordine, lasciare il campo.

Facile, no? D’altra parte, non è accaduto a un banchiere di assurgere, ultimamente, al ruolo di Salvatore della Patria? E non è successo, ancora prima, a un furbissimo imprenditore, di ridare vita alle aspirazioni frustrate di un intero ceto medio fino a portarlo ai vertici, stravincendo elezioni e diventando il padrone d’Italia? Basta dire, l’Italia è il paese che amo. Definirsi nonno delle istituzioni. Affascinare, stregare, carpire le speranze. Inondare di fiumi di parole. Prima o poi i più, entusiasti, abboccheranno, se non altro per speranza di avere finalmente agganciato il treno giusto, e quasi tutti diranno, ah sì, vedi? Sono loro. Loro chi? Ma come, non lo sai? Sono Loro.

Facezie a parte. Siamo il paese dei parvenus. Dei lei non sa chi sono io. Dei ma davvero non ha letto il Mio Ultimo Romanzo? Di quelli che sono “quelli là” e gli altri zero carbonella. Siamo il paese di quelli che un giorno sfileranno, fieri e orgogliosi dei loro abiti nuovi di zecca, perché tanto nessuno degli “altri”, intimiditi da tanta sicumera, oserà dire che invece sono tutti nudi. Salvo un marmocchio, quello più indisciplinato di tutti, ma tanto quello lì, ben curvo e canuto, ormai è insieme agli altri umarell davanti al cantiere.








							
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