Costruttrice di mondi

Sono passati più di otto mesi e praticamente una vita intera da quando chiudevo l’intervista con Emanuela Valentini su Angeli di Plastica e il destino mi riporta, alla fine di tragiche vicende personali, a scrivere di nuovo di lei, dopo avere divorato in poco meno di un’ora il suo racconto Le fate di Nohram Manor su Robot n.81 appena ricevuto.

Mi ritrovo di fronte a un racconto a più piani, come spesso accade nelle storie di Emanuela, ma soprattutto a una narrazione centripeta. Nel senso che l’autrice riesce a creare un mondo persistente, tangibile, denso, materico, in cui il lettore cade e si ritrova a procedere, personaggio fra i personaggi, in una sorta di dimensione alternativa. Una stanza, una serie di stanze come se si trattasse di una pièce teatrale, in cui la storia vittoriana scurissima che ci viene proposta diventa allegoria di vita. Di tante vite.

Storia durissima, che non ci risparmia proprio nulla, non pensata per cuori teneri ma certamente per anime sensibili, in grado di sviluppare empatia per diversi personaggi: la coraggiosa e sfortunata April, l’indomita Lucille, il mostro Daniel. Un mondo che attira inesorabilmente, un buco nero che fa a pezzi l’anima del lettore, che si ritrova in un dedalo insanguinato in cui la donna domina come oggetto di prevaricazione e violenza, come insetto da schiacciare. Come vittima di un uomo che è vittima a sua volta. Senza speranza, senza assoluzione.

Fate come allegoria di femminilità tormentata: quante volte gli uomini pensano alla donna come a un’entità quasi magica? Quante volte questa corrente selvaggia di magia e vitalità finisce per essere imbrigliata e forzata in rapporti pesanti e senza futuro dove l’unica regola finisce per essere la violenza? E senza arrivare a questi estremi, quante volte, quanti uomini non si sono voluti rassegnare all’idea che le donne della loro vita fossero persone proprio come loro, desiderose di dignità e rispetto, e le hanno comunque snaturate sfruttando il loro amore, brutalizzandone l’anima? Il possesso che uccide l’amore.

Ci si chiede questo, scorrendo le pagine scritte con passione e rigore da Emanuela Valentini. Ci si chiede questo mentre si odia con tutto il cuore Daniel Lock, e lo si odia tanto più in quanto ci si riconosce in lui: almeno una volta, nella vita, una donna l’abbiamo fatta soffrire anche noi facendo leva sul suo amore. Manipolandola.

E l’uomo nero di questa favola, così archetipico da farci ricordare di Polifemo quando con un morso stacca la testa di una delle sventurate fate prigioniere, riesce perfino a farsi compatire e a evocare un dramma antico come l’uomo e le sue mitologie. Un dramma oscuro che ricorda per contrasto un altro dramma, quello dell’innocenza conculcata, degli umiliati e offesi, di Jean Valjean che ruba il pane e viene punito.

Qui la punizione è ancora più inesorabile in quanto il protagonista si perde nella malvagità che è il suo destino. Un tema classico della letteratura popolare, del feuilleton, del romanzo popolare ottocentesco, quella formula così cara a giganti come Victor Hugo, Emile Zola e Guy de Maupassant, e che Emanuela Valentini riesce a maneggiare così bene rendendocela credibile con un potente transfer di sentimento e rigore stilistico.

Narrazione a più piani, dunque, non solo storia, ma specchio e metafora. E tanti riferimenti di stile: il romanzo popolare francese ottocentesco, certo, ma anche la letteratura vittoriana con il suo sentore di nebbia e fango. Il nostro avatar ormai saldamente dentro il racconto riesce fisicamente a strizzare gli abiti intrisi di pioggia dei protagonisti, pesta i piedi nelle pozze che lasciano sul pavimento i loro stivali logori, si angoscia mentre vanno verso il loro destino in una dimora oscura e buia come l’inferno.

E spuntano suggestioni fantastiche: la casa di Lock è un po’ la casa di Frankenstein, con quei corridoi e quegli spazi che abbiamo conosciuto in Mary Shelley, ma anche quelle dimore da incubo che ci ha descritto Edgar Allan Poe. Siamo già pronti a scendere giù dabbasso, in quella cantina dove, ne siamo certi, un’anima in pena legata a un tavolo sta per essere sezionata da una scure fissata a un pendolo. Seguiamo con questa allucinazione il pellegrinaggio angoscioso di Lucille dentro la casa d’inferno e ci diciamo, l’ho già vista questa scena, nei piani sequenza di Alfred Hitchcock, quando seguivamo Kim Novak fuggire verso la cima del faro dove poi avrebbe incontrato il suo destino.

Tutto questo ci fa sperimentare l’autrice, ricorrendo a una prosa solida, essenziale, ma non per questo meno evocativa, spietata, dolce eppure durissima. Storie tremende come solo la vita vera può esserlo, man mano che si va avanti e questa ci logora erodendo una scorza di spensieratezza dietro l’altra. Finché non arrivano le coltellate: gli abusi sulla giovane April e il suo triste destino di donna coraggiosa in un secolo che non lo permette, la felicità impossibile di Lucille pazza del mostro, Lock – nomen omen – carceriere di se stesso prima ancora che delle sue vittime. Un personaggio che echeggia il dramma di Jekyll-Hyde, ancora un riferimento, quello al grande romanzo di Robert Louis Stevenson.

E poi gli squarci di ambientazione alla Jane Austen, le tre sorelle che discutono di uomini come in Orgoglio e pregiudizio, in un salotto talmente irreale da far pensare che dietro le pareti si agitino le creature improbabili dei mondi paralleli di China Miéville o le esagerazioni grottesche di Serge Brussolo. Weird, dunque, ma non tanto per gli archetipi e le metafore usate, quanto per l’atmosfera che rapisce. Un sogno dentro un altro sogno, il tuo sogno lettore, perché la favola narra di te, che sta dentro quello dell’autrice che racconta se stessa senza remore.

Onestà narrativa, allora. Costruzione. Disciplina. Evocare i grandi autori dell’Ottocento senza autocompiacimento, ma riuscendo nell’apparentemente impossibile compito di farci vedere il grande Victor Hugo che, quasi fosse cieco come Omero, ci racconta i suoi Miserabili muovendo pacato le mani, cercando visi e lineamenti da percorrere con le dita. L’incredulità del lettore che sfiora i personaggi con la mano dopo essere stato attirato nella storia diventa l’empatia dell’autore che accarezza i capelli di Lucille, che respira sul collo di April facendola quasi sussultare. Empatia. E amore, nel momento in cui capisci che l’autrice non ha fatto altro che costruire un mondo.

Un filo conduttore che non risparmia stupore e anche qualche dolore. Che come spesso dimentichiamo, sono il sale della vita.

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Fantascienza, ucronia e altre stranezze di un dilettante
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