Due anni e mezzo via

Comincio questo post con delle scuse, doppie. Dapprima alla casa editrice Porto Seguro, che ha avuto fiducia in un testo che nessun altro ha voluto – poi vi spiegherò il perché – e poi a chi se lo è sentito presentare il 25 giugno scorso a Marina di Massa. Dunque, l’autore è evidentemente anche il co-protagonista di questo romanzo, altro che amico di cui giornalisticamente avrei raccolto la testimonianza. Negare di essere io a raccontare una mia storia non mi appartiene. Stavolta ho peccato di modestia, come dire. Ho pensato che dato il tema sarebbe stato forse increscioso mettermi sul piedistallo con tanta gente che di Covid-19 si è ammalata ed è anche morta. Così non è capitato, per pura fortuna, a mia madre, che ne è guarita, nel cruciale anno 2020, quando ancora vaccini non ce n’era e la malattia era molto più cattiva.

Quindi il ringraziamento/scuse per Porto Seguro: piccolo, ma volitivo editore fiorentino, che ancora crede nei libri di carta, e che ha creduto, andando assolutamente controcorrente, in una storia come questa. Che avevo proposto inizialmente ad altri, conoscenti, amici, compresi editori di letteratura fantastica, date le derive di certe parti del romanzo di cui vi dirò. Ricevendone tuttavia cortesi quanto netti dinieghi. Uno per tutti, “nessun vuole sentire anche solo nominare il covid, figurarsi leggerne, pubblicare una storia così sarebbe un suicidio”.

Ebbene, non lo è stato. Due anni e mezzo via sta pian piano decollando, stampato, certo, in un numero ridotto di copie e per ora affidato al tam tam di amici e stampa vicina, sperando di organizzare al più presto una presentazione pubblica come si deve. Non perché a Marina di Massa non si stato così, ma insomma, un libro si presenta tendenzialmente anche in luoghi diversi da uno stabilimento balneare sul finire della giornata. Lo sappiamo tutti, io, l’editore e anche chi è venuto quella sera, l’auspicio è che la promessa di un evento adeguato venga mantenuta; io per me ce la metterò tutta.

Dunque, il libro. Qualcuno ha parlato di mainstream per Due anni e mezzo via, e non è del tutto sbagliato; intendiamoci però sui termini. Cos’è “mainstream” e cos’è “genere”? Due anni e mezzo via descrive la parabola di una malata di covid, anziana e fragile che, causa la malattia, si vede proiettata all’improvviso fuori dal suo elemento naturale: la casa, le abitudini di una donna più vicina ai novanta che agli ottanta anni. Pertanto, di per sé poco incline a cambiare abitudini, figuriamoci cosa succede quando tutto a un tratto il cervello comincia a fare scherzi, l’aria manca e ci si ritrova seduti per terra dopo avere tentato di andare in bagno.

Mia mamma è finita così in ospedale, con un covid diagnosticato tardi – ringrazio ancora, ironicamente, il medico di base che non volle certificarlo prima, mettendoci magari in condizione di usare quegli antivirali che per mamma, dopo il ricovero, si rivelarono inutili – e la prospettiva seria di non uscirne più. Ricoverata in un reparto blindato da cui uscivano notizie solo a orari fissi e comunque in maniera estremamente professionale, dalle più critiche dell’inizio a quelle molto più confortanti del prosieguo. Due settimane e mezzo all’Ospedale Galliera di Genova che nella mente di mia madre sono diventati due anni e mezzo.

Di qui il titolo del romanzo, che doveva nascere come suo, di mia madre, ma che lei, nella sua età avanzata non ha voluto scrivere, lasciando alla fine l’incombenza a me, raccontandomi le sue stranissime esperienze di paziente affetta da ipossia e quindi esposta ad allucinazioni di ogni tipo, e trascrivendo solo qualche riflessione su pezzettini di carta che poi si sono rivelati utilissimi, soprattutto quelli in cui ragionava proprio sul tempo che trascorreva e non fluiva più normale nella sua mente, oppure sulla sua stessa età, che non riusciva più a calcolare per bene: incertezze che poi in parte le sono rimaste come eredità di una malattia che ancora non sappiamo quanto incida non solo sulla salute polmonare ma anche sulla stabilità psicologica e neurologica di chi la contrae, anche nel lungo periodo.

Ed ecco quindi la protagonista di Due anni e mezzo via fantasticare sulle ombre che vede sul soffitto della sua stanza di ricovero: fantasie allucinate in cui si mescola il ricordo dei libri letti, e dunque i soldati di Guerra e Pace, il conte Vronskij e Anna Karenina, ma anche la battaglia di Balaklava. Perché Dora/Giulia nel reparto covid del Galliera ha combattuto una guerra. Che ha vinto forse anche perché è riuscita a estraniarsi dal presente. Lo ha metaforizzato. Romanzato. Una vicina di letto che si trasforma in una Capitana dei Contrabbandieri, il freddo patito che si sceneggia in un viaggio in treno in montagna, che mi veniva puntualmente annunciato nelle varie stazioni in ogni telefonata, e io a dire, ci siamo, è andata, non tornerà più indietro da questo mondo parallelo.

Delirio come rifugio, è capitato a tanti pazienti gravi di covid con patologie polmonari severe e bassa saturazione di ossigeno. Tutto si spiega, ma anche no. Chi sarà mai stato e soprattutto cosa avrà mai detto a mia madre l’uomo con su scritto sul casco ermetico “PRETE”, per sconvolgerla al punto da fare tornare la febbre? Forse nulla, forse il prete voleva solo dare conforto, ma le sue parole sono state stravolte da un’esasperazione amplificata dall’ipossia e dalla scarsa lucidità. E tuttavia questo PRETE, così come la Capitana dei Contrabbandieri sono assurti a livelli metafisici, autentici topoi negativi e adattissimi a una narrazione di tipo fantastico, che io, autore di narrativa di genere fantastico, mi sono sentito pertanto senza remore di applicare.

Viaggio all’inferno e ritorno, dunque? Sarebbe stato troppo banale, come sa chi elabora titoli per mestiere; il titolo c’era già, in quello che Dora/Giulia sostenevano: sono stata due anni e mezzo via. La mia testa mi dice così. La dimensione del tempo, del resto, sappiamo tutti essere relativa e personale. Un viaggio che interseca dunque fatalmente altri viaggiatori, altre vite. Zaira/Stefania, assistente di mia mamma, mai ringraziata abbastanza per ciò che fa – e che si prese il covid a ruota – Bruno/io, il figlio filiale impaziente, descritto – non potevo fare diversamente – per com’è/sono, senza complimenti o particolari riguardi; e dunque un’autoanalisi che quelli bravi definirebbero cruda e spietata; quindi i medici nella loro casuale e ruvida angelicità, compresi quelli meno empatici, tutti indistintamente da applaudire per come è stato trattato un caso che all’inizio sembrava segnato. La RSA dove infine Dora passa un pezzo di convalescenza, con i suoi tratti misti di nido/serraglio/prigione.

Un romanzo atipico e insieme tipico per il sottoscritto, così lo avevo descritto appena uscito. Di certo un testo per me non del tutto usuale, che mi ha accompagnato in un processo di consapevolezza che sta continuando ancora adesso. A me è servito, mia madre lo ha gradito, spero possa piacere anche a voi tutti.

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Fantascienza, ucronia e altre stranezze di un dilettante
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