
Embedded, così si definisce il giornalista che lavori in una zona di guerra al seguito di un esercito, accettandone la protezione ma anche le limitazioni imposte alla propria libertà di movimento e di espressione. Mai come dal 24 febbraio, e facendo assolutamente salvo il lavoro di chi per raccontare ciò che accade ogni giorno rischia fisicamente la vita, in Italia questo termine è diventato attuale, e più che a descrivere uno stato di necessità, è venuto a delineare una disposizione dell’animo: il giornalista che, senza nemmeno averne il bisogno, dalla ridotta di casa o da desk, o dalla televisione, precisi dapprima la propria posizione, formuli il proprio giudizio di condanna, ancorché ultroneo, su chi ha aggredito, e piuttosto di preoccuparsi di descrivere la realtà, didascalicamente emetta giudizi su chi questa stessa realtà cerca di sviscerare in tutte le sfaccettature, comprese quelle meno lusinghiere per la parte che si è deciso di sostenere. Il commentatore, insomma, questo fenomeno di tipica italianità.
Ora, è assolutamente evidente chi nella guerra russo-ucraina sia l’aggressore e chi si stia difendendo. E’ pacifico. Ma il giornalista commentatore italiano, non pago dell’evidenza, ed essendo abituato da sempre a vedere e magnificare vestiti sgargianti indosso al nudo imperatore, deve manifestarsi più realista del re, e rammentare a tutti, in ogni articolo, da che parte stia la Verità. Chi abbia ragione, chi torto. Esemplare un recente Caffè di Gramellini in cui nientemeno che l’Anpi viene bollata di infamia per seguire linee di pensiero non ortodosse e il cui stesso acronimo viene per questo ribattezzato “Associazione Nazionale Putiniani d’Italia”. Un marchio d’infamia degno di figurare nella galleria di ben altri regimi, e che non a caso genera filiazioni inquietanti, come il meme in cui si storpia il manifesto dell’Anpi per il prossimo 25 aprile che riporta, disteso in orizzontale, il tricolore italiano, come se fosse “quello dell’Ungheria”. La perfida Ungheria che appoggia Putin, ovviamente.
Un’atmosfera inquietante, che se non fossimo dichiaratamente in democrazia ci porterebbe dritti a ricordare climi come quello del maccartismo negli Stati Uniti, oppure gli agit-prop degli stessi vituperati regimi del socialismo reale di un tempo, o le opposte propagande di guerra di Russia e Ucraina. Siamo, però, dichiaratamente in democrazia. D’accordo, una democrazia in cui il diritto di voto risente di qualche trascurabile intoppo dovuto alla pandemia e alla necessità dei partiti di non farsene travolgere; una democrazia in cui non siamo riusciti a eleggere un Presidente della Repubblica che non fosse chi già avesse esaurito il suo mandato, in cui al governo c’è un ammasso di forze politiche eterogenee e ormai in uno stato perenne di confusione, e il cui premier è un banchiere prestato alla politica. O per meglio dire, un banchiere che sta facendo da tutore alla politica.
Non a caso la risposta della politica italiana alla guerra è stata flebile e poco convincente. Il nostro Paese non è ascoltato a livello globale, e questa non è una novità; l’aspetto, di nuovo inquietante, è se mai che mentre di fronte alla pandemia vi era una massiccia inflazione di presenze politiche ufficiali, dai ricorrenti – e anche un po’ sconcertanti – messaggi televisivi di Giuseppe Conte agli sguardi fissi – altrettanto sconcertanti – di Mario Draghi; adesso, di fronte alla guerra, proprio nel momento in cui una comunità avrebbe bisogno di sentire il parere e perché no, anche il conforto dei propri governanti, questi invece sembrano implosi. Dopo una prima settimana di sparizione pressoché totale di fronte agli eventi, la politica italiana è tornata balbettante, esitante, più vuota di contenuti che mai. Se non la propria, eterna e vuota autocelebrazione.
Qualche politico europeo, va detto, si è presentato da Putin cercando di capire, di esprimere ragioni o convinzioni, in alcuni casi anche pressioni. Uscendone anche con qualche ammaccatura, certo. I nostri no. Sono rimasti nella ridotta casalinga, elaborando la consueta pietanza con salse da loro ritenute adeguate alla situazione, ma evidenziando, dagli assoluti vertici fin giù nella catena gerarchica e alimentare, un’assoluta inconsistenza di argomenti e progettualità. Cosa farà l’Italia di fronte alla crisi bellica? Volete la pace o i condizionatori accesi, la frase ormai tristemente famosa di Mario Draghi, che ricorda con molta malinconia quella altrettanto cinica attribuita da più di due secoli alla povera Maria Antonietta. Falsamente, oltretutto, e di sicuro da una storiografia “allineata”.
E torniamo pertanto alla stampa “embedded”. Una stampa davvero libera avrebbe inchiodato i potenti alle proprie affermazioni e anche ai loro silenzi. Alla loro inconsistenza in un momento così tragico. Al loro eterno cinismo. E invece no. Il giornalista commentatore “embedded”, colui che coi suoi corsivi, editoriali o comparsate televisive forgia l’opinione pubblica, salta sul carro (armato) della Ragione e stigmatizza ogni punto di vista minimamente articolato. Sembra che questa guerra sia unicamente nata dalla follia di chi l’ha ordinata, e non da un processo in atto almeno dal 2014, se non addirittura da vent’anni. Che non sia affatto frutto del cozzare, uno contro l’altro armati fino ai denti di due imperialismi, quello americano e quello russo, con un terzo, quello cinese, a stare alla finestra a guardare chi la spunterà. Come se continuare a ripetere come un mantra l’ovvio, e cioè che la Russia stia aggredendo e brutalizzando l’Ucraina, fosse il passaporto necessario per poter esprimere ogni valutazione.
Purché tale valutazione sia quella di scuderia. Perché parlare di pace, volere la pace, cercare di mettere i contendenti intorno a un tavolo, quello no. Non si può fare e quindi non si può dire, e tutto ciò che non si può dire non si deve dire. E’ tradimento, ops, filoputinismo. Fra quanto chi continua a pensare e a dire ciò che pensa in questo paese sarà accusato di disfattismo? E’ già accaduto, accade ancora, se pure con parole apparentemente diverse, accadrà di nuovo. Finché ogni giornalista che si rispetti in questo Paese non ricorderà che, prima ancora di raccontare un omicidio, dovrà per forza chiarire che, primo, non uccidere.