Di tre romanzi volevo parlare oggi, recenti letture e fra loro molto diversi. Il primo mi riporta indietro di più di un anno. Lithica, di Alessio Brugnoli, premio Kipple nel 2014 è un seguito sui generis di quel Canto Oscuro che tanto mi piacque. Visto attraverso gli occhi dei suoi protagonisti, è un viaggio avventuroso fra velivoli steampunk, un’Europa alternativa fatta di nobili, avventure e quegli echi romani e papalini che tanto piacciono all’autore. Romanzo fatto di dettagli, angoli, panorami, citazioni e vedute, con due fortissime ispirazioni: Lovecraft – e anche un po’ di Poe – per l’impianto generale – senza trascurare un po’ di Segno del Comando – e Stephenson per la cura certosina dei particolari.
Tuttavia, proprio come Stephenson spesso si perde dietro al proprio complesso filo di pensiero, così fa Alessio, che si strugge dietro una gemma e poi dietro l’altra, e in questo modo si perde per strada anche il lettore. Francamente con una certa fatica sono riuscito ad arrivare a destino e a ricollegare tutti gli elementi di una trama per apprezzare la quale dovrò sicuramente rileggere tutto. Show, don’t tell, diceva quello, ed è proprio quanto è accaduto a Lithica: troppo raccontato, troppo filtrato, visto attraverso troppe lenti d’ingrandimento. Spassosa per me quella della coppia Beppe-Zerlina, binomio che si vede l’autore ama molto e in cui in parte forse si riconosce: il romano godereccio ma non solo che viene trascinato obtorto collo in un’avventura mirabolante, un po’ la versione capitolina del Passepartout che aiuta Phileas Fogg in questo Giro del mondo in 80 giorni che in fondo è la cifra di Lithica. Dimenticavo, omaggio commosso e riuscito anche a Jules Verne.
Diversissimo, eppur simile, è l’altro premio Kipple, stavolta del 2015: Non ci sono dei oltre il tempo di Davide del Popolo Riolo. Avvocato cuneese con Roma dentro il cuore, Davide condivide con Alessio la passione per la città eterna. Ma come Brugnoli conosce ogni sampietrino dell’Urbe che fu e che sarebbe potuta essere, Davide dà del tu ai suoi protagonisti storici più famosi: Catone, Cicerone, Marco Antonio, Cleopatra, e soprattutto Giulio Cesare; quel Cesare che in De Bello Alieno fu il padre della svolta “steam” per le future insegne imperiali, e che qui invece è una creatura artificiale, manipolata da potenze oscure che guerreggiano tra loro per controllare il Tempo. Come tuttavia già in De Bello Alieno la parte meno soddisfacente del romanzo è secondo me proprio quella fantascientifica: lì i tripodi alla maniera di Wells che attaccano una Roma di cui sono gelosi. Ma perché mai gelosi, mi chiesi all’epoca, visto che era come per un essere umano ingelosirsi di un formicaio. Vero è che i bambini i formicai spesso li distruggono, ma questa è un’altra storia; tornando a quelle di Davide, in Non ci sono dei oltre il Tempo la parte meno convincente è questo sodalizio rissoso di entità che controllano il corso degli eventi e che lo influenzano. Già visto e già sentito anche questo, anche qui con una guerra tra armi fantascientifiche e armi magiche che alla fine risulta un po’ forzata.
Ma se questa parte un po’ delude, ciò che mi è piaciuto è l’ambientazione. Davide del Popolo Riolo è un grande conoscitore della Roma repubblicana e la sua Urbe puzzolente è così viva e materica che ci si possono mettere le mani dentro, senza meravigliarsi poi di sporcarsele e doversele lavare con la farina, alla maniera di chi il sapone ancora non lo conosceva. Insomma, un romanzo storico accuratissimo cui poi è stato cucito addosso un meno efficace vestito fantascientifico. Avendo letto il delizioso racconto Erasmo sull’intelligenza artificiale so che Davide può fare di molto meglio nel genere sf e quindi lo esorto a scegliere: o il romanzo storico, o la fiction di anticipazione: il cosiddetto “sandal punk” con i romani in treno a vapore, le astronavi, i tripodi o i Geni del Tempo poco ci azzecca, a mio avviso. A meno di non trovare una strada alla Crichton in Timeline, e allora ci siamo.
Dulcis in fundo, la migliore lettura di questo mese dopo Real Mars di Alessandro Vietti: Binti di Nnedi Okorafor. Premio Nebula quest’anno, porta alla ribalta un’autrice americana di origini nigeriane. Una scrittrice di grande immaginazione che esattamente come Alliette de Bodard porta il suo mondo, le sue tradizioni nella space opera. Una space opera che però è allucinata, cupa, come le creature aliene che popolano questo racconto lungo, e come oscuro e irto di fatica è il percorso che porta la protagonista a comunicare con questi esseri.
A fronte della banalità con cui spesso è stato trattato il possibile incontro/scontro fra l’umanità e le razze aliene la leggerezza disincantata e l’essenzialità di Okorafor stupiscono e incantano. La sospensione dell’incredulità si raggiunge senza nemmeno accorgersene, e ci si immerge in una vicenda dove il manufatto o l’estrusione aliena si fondono senza soluzione di continuità con il loro corrispondente africano, fino a mescolare anche fonemi e parole. Una parabola non solo sull’integrazione, ma sulla mancanza della stessa. Sulla solitudine e sulla comunicazione. Sull’umanità che non è tale. E alla fine ti accorgi che la favola, come sempre, non parla d’altri che di te.
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Per quanto attiene l’invidia/gelosia degli alieni:
Nessuno pensava minimamente che i più antichi mondi dello spazio potessero rappresentare un pericolo per gli uomini, o pensava ad essi soltanto per escludere la possibilità o anche solo la probabilità che esistesse sulla loro superficie una qualunque forma di vita. È curioso ricordare alcune idee di quei giorni lontani. Gli abitanti del nostro pianeta si figuravano al massimo che su Marte potessero esserci altri uomini, forse inferiori a loro e pronti ad accogliere a braccia aperte una missione di civilizzazione. Tuttavia, di là dagli abissi dello spazio, menti che stanno alle nostre come le nostre stanno a quelle degli animali bruti, intelletti vasti, freddi e spietati guardavano la terra con invidia e preparavano, lentamente ma con fermezza, i loro piani contro di noi. E agli inizi del ventesimo secolo si ebbe il grande disinganno.
Herbert George Wells, La guerra dei mondi
Infatti Wells scriveva questo molto, ma molto tempo fa. 🙂