Quante realtà dentro il sogno

Yael Artom è una di quelle rare scrittrici capaci di frugare dentro l’animo del lettore: pochi personaggi, ma indimenticabili, un protagonista perennemente sulla frontiera tra equilibrio e squilibrio, una vicenda totalmente normale nella sua anormalità. In poche parole, ciò che siamo, chi siamo oggi, le nostre identità confuse e le nostre volontà fragili. Un romanzo, Il pesce del tempo (Voland, 2022), che ripercorre le tracce della narrativa mitteleuropea. Ho trovato echi del flusso di coscienza di Joyce, ma anche paradossi allucinatori che mi hanno ricordato Kafka, e soprattutto la riflessione di Svevo in un curioso parallelo tra Zeno, la sua coscienza e il protagonista di Artom, Adàutto. Curioso nome, per inciso: cercandone l’origine si scopre che è tratto dal latino “aggiunto” e si risale a un martire cristiano dei tempi di Diocleziano. Non a caso? Al lettore la risposta. Dal canto suo, Yael è nata a Gerusalemme, ha insegnato scrittura accademica, lavorato presso una ONG e fatto la lettrice per una casa editrice. Insegna letteratura inglese presso una scuola internazionale a Genova, la città dove ormai vive da anni, e collabora con la rivista Pulp. Ho avuto modo di incontrarla grazie al comune amico Nico Gallo e, dopo avere dato una scorsa al suo libro, di averla ospite nel TG regionale della Liguria. Poi ho letto il romanzo in due giorni e ne sono rimasto colpito. Di qui il desiderio di riaprire Ucronicamente con la sua intervista. E come nel finale del romanzo apparirà chiaro, il tempo-non tempo, la controfattualità della narrazione che spesso si sostituisce alla realtà, l’onirico come altra faccia del razionale sono concetti che Yael Artom gestisce con maestria, collocandosi con agio come autrice almeno collaterale alla letteratura fantastica.

Quali sono, se ne hai, i tuoi modelli letterari?

Ne ho tantissimi, e molto diversi fra loro. Fin da piccola ho sempre amato molto i racconti e la lettura. Ascoltavo a bocca aperta mia madre che mi raccontava i miti greci prima che imparassi a leggere, e, dopo che ho imparato a leggere, quando ero immersa in un libro, non sentivo se mi chiamavano. Ci sono tante influenze, anche inconsce credo, ma fra le più forti in questo romanzo c’è quella dell’Ecclesiaste, ma anche i giochi linguistici di Heller, le atmosfere surreali di Boris Vian e Kafka, e il senso del ritmo di Faulkner.

Adàutto è il tuo protagonista. Subisce, nel corso del romanzo, una progressiva metamorfosi che ne mette a nudo carattere e debolezze. Ti ci riconosci oppure è frutto di osservazione esterna?

Mi ci riconosco in senso lato, come essere umano. Penso che l’identità sia complessa e lontana dall’essere stabile e univoca. “Io” è una storia che ci raccontiamo, tentando di dare un significato alla nostra identità, qualcosa che ci dia un senso di continuità e stabilità, ma credo che l’io sia più sfaccettato e vario, e dipenda fortemente dalle circostanze e da chi abbiamo intorno. Volevo creare un personaggio che non fosse bianco e nero, in cui potessero convivere momenti ispirati e momenti gretti, un uomo qualunque che si ritrova in mondo estraneo, e quindi un uomo che tenta di creare sé stesso con ogni sua decisione, una personalità instabile, spesso al limite dello squilibrio.

Le piccole e grandi ossessioni ci forgiano e condizionano la nostra vita. È un destino o esiste una via d’uscita?

Non so se definirlo un destino, ma credo che la possibilità dello squilibrio e dell’ossessione sia sempre presente, e che siamo più fragili di quello che ci piace ammettere. La nostra stabilità è frutto di un costante esercizio di equilibrismo che facciamo per tenere insieme la realtà e la nostra percezione, non solo della realtà stessa ma anche di noi e del nostro posto nel mondo. Lì, in equilibrio precario su un filo, cerchiamo di non vedere le inevitabili discrepanze che ci farebbero vacillare. Ma ogni tanto un colpo di vento arriva.

Quanto influisce, se influisce, la tua esperienza di insegnante di letteratura sulla tua narrativa?

Insegnare letteratura e farne esperienza insieme ai ragazzi in classe ha confermato per me in modo molto tangibile quanti significati possibili ci siano in ogni opera, quanto rimane implicito, fra le righe, pronto a essere scartato come un regalo e guardato diversamente da diversi lettori.

A un certo punto la coscienza di Adàutto emerge in una sorta di flusso: ti sei ispirata a Joyce?

Non consciamente, non oserei! Ma  il modernismo è una corrente che mi affascina molto. Mi piace l’idea di poter ritrarre un personaggio attraverso il modo in cui pensa.

Più leggo il tuo romanzo più ci vedo analogie anche con Kafka e soprattutto con la narrativa mitteleuropea alla Italo Svevo. Riconosci questa influenza?

È un paragone che mi lusinga moltissimo. La scrittura di Kafka è talmente potente che una volta ho dovuto mettere via un suo racconto perché mi aveva sconvolto troppo. Anche Svevo mi piace molto per il suo umorismo sottile e la sua eleganza.

Cosa leggi di solito quando non scrivi?

Tante cose diverse, dai classici alle nuove uscite, e di quasi tutti i generi.

Ti piace la fantascienza? Quali autori ne conosci?

Sì, mi piace molto, credo che sia un genere che dà grandi opportunità per sviluppare idee e universi. Il mio autore di fantascienza preferito è Philip K. Dick,un autore strano e imperfetto, a cui perdono tutto perché  mi piacciono tanto i suoi mondi e le impossibili situazioni esistenziali e filosofiche che crea.

Puoi anticipare qualcosa del tuo prossimo romanzo?

Quello a cui sto lavorando in questo momento è un romanzo sul potere che hanno le storie e come possono sostituirsi alla realtà.






Informazioni su gstocco

Fantascienza, ucronia e altre stranezze di un dilettante
Questa voce è stata pubblicata in Uncategorized e contrassegnata con , , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento