Plastic people

bubu

Mi ero avvicinato ad Angeli di Plastica con un misto di curiosità e timore, perché avevo letto in passato altre cose di Emanuela Valentini, e avevo preso nota di due aspetti: da una parte l’apparente facilità di prosa che si risolve quasi in raffiche di parole, e dall’altra lo stream of consciousness che si avverte sotto, la sofferenza, la spremitura mentale che molti scrittori conoscono, la difficoltà o il patimento nel far uscire ciò che si vorrebbe uscisse. Una dicotomia non sempre fruttuosa, e spesso letale per un autore di genere, che si vorrebbe facesse attenzione più alle idee di base, alla trama, alla costruzione generale, piuttosto che allo stile. Curiosità aumentata esponenzialmente dalla collocazione del romanzo nella cinquina finale del premio Urania e dalla sua successiva pubblicazione per i tipi di Delos, oltre che dall’indubbia personalità dell’autrice.

Un romanzo che comincia bene: veloce, tagliente, una protagonista che si imprime nella mente, un’idea che si scopre non subito, ma abbastanza in tempo per distrarre da quelle che potrebbero sembrare magagne e di cui parlerò dopo: insomma, da qualche parte in questa città post apocalittica così simile a quella di Blade Runner, c’è qualcuno che stampa esseri viventi, con software e istruzioni provenienti da chissà dove. E uno di questi esseri così simili nel concetto di base all’aliena di A come Andromeda è ancora più particolare di quello che ci si potrebbe immaginare subito. Non dirò altro per non rovinare il gusto della scoperta, anche perché, diciamocelo: la trama è solo parte, e se proprio vogliamo nemmeno la più importante di questo romanzo.

Il nocciolo, il grosso, è la sofferenza. La sofferenza di Mei, ragazza così particolare, in cui con ogni evidenza si identifica Emanuela Valentini. Una protagonista appassionata, violenta, pura, maltrattata, selvaggia, spostata. Non è la prima volta che la letteratura di genere ci propone l’eroe/antieroe che opera in un contesto degradato, e che si degrada lui stesso – come accadrà – per raggiungere la sua epifania. Un classico, si potrebbe dire, al punto da considerare un atto di coraggio letterario quello di scegliere una soluzione già battuta da tanti autori.. Tuttavia qui il pregio sta nella spontaneità disarmante con cui avviene l’operazione. Emanuela Valentini riesce a essere credibile nell’ardua operazione della favola che narra di noi stessi. Si astrae dalla sua Mei quel tanto che basta per farci capire che il dolore della sua protagonista è il suo stesso dolore, ma senza esagerare troppo nell’autocompiacimento. Si mostra nel suo intimo senza curarsi troppo di chi stia a guardare, del resto qui, se non si fosse capito, si tratta di una seduta di autoanalisi.  Senza esagerare, appunto.

Senza esagerare troppo, per meglio dire. Perché qualche esagerazione c’è. Troppe parole, troppo racconto a descrivere l’azione, troppo pathos, specie nella seconda parte del romanzo, troppe sottolineature al neon per indicarci l’ovvio, fin quasi a farci intuire un finale che rischia di essere scontato. Del resto quando si racconta se stessi difficilmente si riesce a essere anche obiettivi. Ma pur coscienti dei limiti di questo romanzo, ne solleviamo lo sguardo piacevolmente stupiti, perché l’autrice è riuscita a farci arrivare alla fine voltando pagina su pagina e senza strappare mai un sorriso ironico.

Un’opera che sarebbe ingiusto giudicare dalla trama, si diceva, ma che va valutata come specchio sincero dell’autrice e conseguente consapevole tentativo di sfuggire alla scorciatoia solipsistica. Cadervi sarebbe stata questione di un attimo, e il romanzo si sarebbe perso in un gorgo inestricabile. Stilisticamente un interessante esperimento di linguaggio ridondante e fluviale, ma da questo punto di vista credo ci sia ancora molto da lavorare e da limare. Non è facile mettere d’accordo sperimentazione e genere, e spesso le opere più riuscite sono quelle dove non ti accorgi che l’autore sperimentava: penso a Dimenticami Trovami Sognami di Andrea Viscusi e a Real Mars di Alessandro Vietti, che partono sornioni e poi ti trovi circondato di polifonie dissonanti e il micio da divano è diventato il gatto del Cheshire. E Alice cresce improvvisamente fino a dieci piedi d’altezza…

In Angeli di plastica la follia è molto meno controllata: la prosa è viscerale, il dialogo con l’altro sé è crudo e non ci risparmia nulla: fosse stato più asciutto e meno logorroico forse alcune rasoiate sarebbero state più efficaci e memorabili. Quel che conta però è il risultato: una protagonista da ricordare, un’idea forte. Non potente come con più mestiere sarebbe potuta essere, ma comunque forte e vivida, al punto da augurarsi che Emanuela ne abbia tante, di idee o pillole colorate nella sua scatola dei misteri. Anche perché a questo punto non vedo l’ora di assumere la prossima… 😉

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Fantascienza, ucronia e altre stranezze di un dilettante
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