Marte, quello vero

burpete
Era molto tempo, personalmente, che aspettavo un romanzo di Alessandro Vietti. Anzitutto perché lo conosco bene e perché ne apprezzo l’arguzia, quel guizzo di intelligenza critica e spiritosa, quella vivacità di indole che ti suggerisce l’imminenza di una considerazione interessante e mai banale. Ne avevo letto in passato sia Cyberworld che Il codice dell’invasore, e mi chiedevo quando avrebbe ripreso la penna in mano per una nuova avventura letteraria. Bè, eccomi servito. Real Mars è Vietti all’ennesima potenza, e anche di più. Un romanzo che è un’intuizione potente sul futuro della narrativa di anticipazione e nello stesso tempo una denuncia forte del mondo di oggi. Fin qui, qualcuno potrebbe dire, dov’è la novità? Esiste un copioso novero di autori della nuova e relativamente nuova onda che mettono insieme i due aspetti, la ricerca stilistico-letteraria nel genere fantastico e l’impegno più o meno marcato nella politica o nel sociale: Ian McDonald, Alistair Reynolds, China Miéville, Ted Chiang, Alliette De Bodard, Ann Leckie. E potrei andare avanti a lungo, magari perdendomi lungo la tangente del premio Hugo ormai stravolto dai Forconi rappresentati da Sad e Rabid Puppies, autori di destra stanchi di quella che a loro avviso è la dittatura del politically correct nel suddetto premio. Non del tutto a torto, ma questo è un altro film. O quasi.

Perché questa premessa? Perché Real Mars è fondamentalmente un romanzo di denuncia, e, quel che è più importante, sia pur scritto da un autore evidentemente collocato a sinistra, un romanzo non moralistico, non didascalico. Non siamo, cioè, di fronte all’ennesimo polpettone da parrocchia, all’ennesima storia lacrimevole che suggerisce, esplicitamente, o con accorgimenti retorici, quale sia, dopo le inevitabili autoflagellazioni, l’Unica Strada Possibile verso il progresso. Uno standard che nel passato più o meno recente ha contraddistinto un buon pezzo di fantascienza italiana. Quasi al punto che, considerata l’affilatura del coltello che Vietti alle volte sostituisce alla penna o alla tastiera, potremmo dire di non essere nemmeno davanti a un romanzo italiano di fantascienza.

Real Mars ci porta su Marte, quello vero, attraverso gli occhi e la lente di un reality show. La poltrona in copertina è già programmatica: in Italia, Paese di spettatori e, diciamolo, di guardoni, un’impresa epocale quale che sia si segue con la TV. Come fu per l’Apollo 11, ma anche meglio: piazzando nella Europe 1 una ridda di telecamere che trasformino l’astronave in una versione viaggiante della Casa del Grande Fratello, dove i quattro protagonisti, più che pensare alla missione, paiono piuttosto badare alle loro interazioni personali, a chi hanno lasciato a casa, a chi hanno trovato a bordo. E queste interazioni vengono seguite in tutto il mondo: Vietti ci dà sapientemente il tocco del Whole World Watching attraverso rapide pennellate di anonimi o quasi anonimi spettatori pescati mentre seguono lo show e ci danno lapidario conto delle loro esistenze: anche qui, in passate tanto veloci quanto precise, abbiamo una precisa idea della natura del mondo che segue la missione Europe 1 e dei suoi più o meno fortunati protagonisti.

Impossibile non fare spoiler, ma proviamoci: forse la parte più prevedibile del romanzo è quella finale, dove i protagonisti spaziali del gioco – ripeto, non vi sfuggano i ritratti di chi rimane sulla Terra – insorgono contro le regole del medesimo e, al culmine del dramma – perché c’è un dramma – compiono un sacrificio iconoclasta. Qui capiremo forse che il quid del romanzo stava non nella destinazione del viaggio descritto, ma nelle sue modalità e in come quel viaggio avrebbe cambiato i suoi protagonisti. E Marte, quello vero, diventa più una metafora, ciò che alla fine noi tutti amanti della fantascienza abbiamo preferito che fosse, piuttosto che il tangibile pianeta rosso su cui scorrono le ruote di Curiosity, o sul quale piantare una bandiera e, magari, trovare en passant anche la vita.

Dunque testo e metatesto, storia e metastoria, e soprattutto una chiave, che ci riporta nel vero spirito della narrativa di anticipazione: la conquista, o la riconquista dello spazio, se sarà, sarà affare delle majors commerciali, con tanto di brand pubblicitari a costellare gli scafi dei vascelli spaziali e a navigare sugli schermi di chi seguirà queste avventure in diretta, per mesi, come in un reality show. Agganciando se stesso e le proprie aspirazioni a questi nuovi eroi, proprio come accade oggi per l’Isola dei Famosi o per MasterChef. E queste vicende mirabolanti oscureranno tutto il resto, che vi si dissolverà come lacrime nella pioggia.

Più denuncia di così: il capitalismo di domani stravince, mettendo il suo sigillo sui nostri sogni e banalizzando le nostre vite vere in nome di una costruzione sceneggiata. Vince, sì, attenzione, ma – ecco il Vietti di lotta – solo finché glielo permettiamo. Romanzo di fantascienza, allora, certo, perché ci anticipa con intelligenza un futuro possibile. Romanzo sociale, perché ci proietta questo futuro sullo sconfortante presente che tutti conosciamo. Romanzo politico – e forse questa, per la sua prevedibilità è la parte meno solida – perché ci indica una via d’uscita. Romanzo affilato, asciutto, spietato.

Scusate se è poco di questi tempi di politically correct arcigno e dominante, di romanzi noiosi come elenchi del telefono cosparsi di zuccherosa melassa radical chic e moralismo d’accatto, di sessismo all’incontrario e sintassi piegata al capriccio di lobbies, di terzomondismo da boy scout che va per la prima volta all’estero col biglietto Interrail in mano, scopre l’iniquità dell’orbe e ci vessa con le sue inevitabili quanto semplicistiche parabole.

Scusate, soprattutto, se è poco che un romanzo italiano di fantascienza si emancipi dalle tagliole politiche, non ci elargisca nemmeno un luogo comune, ci risparmi il predicozzo e ci sappia regalare una vicenda degna di essere seguita fino all’ultima pagina. Applausi a scena aperta.

 

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Fantascienza, ucronia e altre stranezze di un dilettante
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